Ambiente

Ambiente (631)

Un recente studio dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr ha dimostrato che la zona compresa tra il limite superiore del bosco e il limite inferiore dei ghiacciai e della copertura nevosa estiva mostra un tasso di riscaldamento superiore rispetto a quello dell’intera area alpina, con possibili conseguenze per i settori idroelettrico, ecologico e turistico. Lo studio, riferito al periodo 1990-2019, è pubblicato su Journal of Mountain Science

 L'ambiente periglaciale alpino è la zona compresa tra il limite superiore del bosco e il limite inferiore dei ghiacciai e della copertura nevosa estiva, dove il clima è dominato da una significativa variabilità della temperatura, sia diurna che stagionale, e la pioggia e la neve cadono principalmente in primavera e autunno.

IL DECALBERO DEL WWF

10 Dic 2021 Scritto da

 

10 spunti green per Natale: dai regali all’albero fino al cenone, ecco come alleggerire il nostro impatto sul Pianeta

 

1) 8 dicembre fuori porta? Abbassa l’impronta del tuo soggiorno.
Per mesi non abbiamo aspettato altro che ricominciare a viaggiare e l’8 dicembre è una buona occasione per organizzare una gita o un viaggio fuori porta. Ma un viaggio può essere anche a basso impatto: se non devi andare oltreoceano scegli il treno anziché l’aereo, così contribuirai ad abbassare l’impronta del tuo soggiorno. Arrivati a destinazione meglio andare a piedi o in bici, per inquinare meno, scoprire angoli nascosti e vivere un luogo come chi lo abita. Scegli strutture ricettive che abbiano un’attenzione all’ambiente e anche tu fai la tua parte: per esempio, la quantità di biancheria lavata senza un reale bisogno implica un enorme consumo di acqua, energia e detersivi. Chiedine il cambio solo quando lo ritieni davvero opportuno. Tutto si muove tramite app: non stampare biglietti su carta ma scaricali sul cellulare.

 

Un team di ricerca internazionale guidato dall’Istituto di scienze polari e di scienze marine del Cnr con il contributo dell’Università di Cambridge ha ricostruito la storia recente del riscaldamento alle porte dell'Oceano artico, in una regione chiamata lo Stretto di Fram, tra la Groenlandia e le Svalbard. Il lavoro, pubblicato su Science Advances, data per la prima volta l’inizio del riscaldamento del più piccolo degli oceani e prevede un ulteriore aumento in futuro a causa del cambiamento climatico.
L’Oceano artico ha iniziato a riscaldarsi rapidamente all’inizio del XX secolo, decenni prima di quanto finora documentato dalle moderne misurazioni sperimentali. La notizia arriva da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dall’Istituto di scienze polari (Cnr-Isp) e di scienze marine (Cnr Ismar) del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna con la collaborazione dell’Università di Cambridge. La causa è un fenomeno da tempo noto come 'atlantificazione', ossia una progressiva intrusione di acque atlantiche (calde e salate) nel dominio artico (freddo e dolce).


Grido d’allarme dei ricercatori internazionali sulla crescente presenza in Europa di mammiferi introdotti da altri continenti, quali il visone, la nutria e lo scoiattolo. Le specie invasive rappresentano un rischio per la sopravvivenza di numerose specie native e anche per la salute dell’uomo
Un gruppo congiunto di ricercatori internazionali provenienti da Italia, Austria e Portogallo ha recentemente messo in luce nella review “Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammals in Europe”, pubblicata su Mammal Review, che i mammiferi alieni invasivi stanno espandendo i loro areali in Europa, minacciando la biodiversità nativa.

La presenza di queste specie, introdotte - in territori diversi dal loro habitat naturale - intenzionalmente come “animali da compagnia o da pelliccia” o accidentalmente, ha conseguenze negative, non solo sull’ambiente, ma anche sulla potenziale trasmissione di patogeni, inclusi quelli zoonotici che possono essere trasmessi dagli animali all'uomo. Il team di ricerca ha evidenziato che questo rischio è associabile all'81% delle specie aliene invasive studiate.

Foto di G. Bruni 

 

Uno studio appena pubblicato su Scientific Reports di Nature dai paleontologi dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont ha messo in luce le potenziali connessioni tra i cambiamenti climatici del passato e le cause della scomparsa in gran parte d’Europa delle salamandrine, che oggi rappresentano l’unico genere di vertebrato esclusivo della Penisola Italiana. I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni a causa delle crescenti emissioni di CO2 e altri gas serra potrebbero causarne l’estinzione definitiva.

 Un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, in un recente studio pubblicato su Scientific Reports di Nature, ha indagato le variabili climatiche in cui vivono le salamandrine e come queste si possano relazionare alle condizioni del passato e del futuro. I fossili sono l’unico strumento a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici per avere accesso diretto al passato e capire come gli organismi abbiano reagito ai diversi cambiamenti a cui è andata incontro la Terra. Il gruppo di ricerca di paleontologia dell’Università di Torino si occupa da molti anni di capire ciò che il record fossile del passato ci può insegnare sugli organismi attuali. Nel caso delle salamandrine, i fossili ci raccontano che questi animali, che oggi si trovano esclusivamente nell’Italia appenninica con due specie, in un periodo compreso tra circa 20 e 5 milioni di anni fa abitavano molte altre aree d’Europa, sparse tra Germania, Grecia, Spagna e Ungheria.

L’Università degli Studi di Milano ha coordinato uno studio volto ad analizzare con che modalità gli organismi colonizzano le aree che vengono liberate, anno dopo anno, dai ghiacciai in ritiro. La ricerca ha dimostrato che la biodiversità degli ambienti glaciali reagisce con modalità e tempi differenti in relazione al tipo di organismo considerato e alla posizione geografica del ghiacciaio. I risultati sono stati pubblicati su Annual Review of Ecology, Evolution, and Systematics.

L’arretramento dei ghiacciai sta mettendo a rischio di estinzione la flora e la fauna che solitamente vivono vicino al fronte dei ghiacciai stessi: questo è uno tra i risultati dello studio effettuato da un gruppo di ricercatori dell’Université Grenoble Alpes, del MUSE - Museo delle Scienze (Mauro Gobbi), CNR Pallanza e Université Savoie Mont Blanc, coordinati da Francesco Ficetola, docente di Zoologia dell’Università degli Studi di Milano, che ha analizzato il meccanismo con cui si modifica la biodiversità accanto ai ghiacciai nel momento del loro ritiro. I risultati sono stati pubblicati su Annual Review of Ecology, Evolution, and Systematics. A seguito dei cambiamenti climatici i ghiacciai si stanno ritirando, in tutti i continenti, con velocità crescente e possono quindi essere considerati una delle più iconiche manifestazioni del riscaldamento globale in atto.

Da un punto di vista biologico i territori da cui i ghiacciai stanno scomparendo sono un perfetto laboratorio all’aria aperta utile a descrivere da chi, come, e con che tempi vengono colonizzati substrati vergini, e permettono di comprendere come si stabilisce la vita laddove prima non c’era. Batteri, funghi microscopici, insetti e ragni sono tra i primi colonizzatori, seguiti poi da muschi e piante. Sono organismi che per vivere necessitano di ambienti freddi e umidi, quindi, annualmente si trovano a dover inseguire i ghiacciai in ritiro. Questi organismi stanno però rispondendo diversamente agli effetti del ritiro glaciale e questo dipende dalla loro capacità di dispersione, e dalla posizione geografica dei ghiacciai.


Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.
Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Stop deforestazione al 2030

03 Nov 2021 Scritto da

 

Oltre 100 paesi alla COP26, fra cui Brasile e Cina, si impegnano ad arrestare e invertire la perdita di foreste e il degrado del territorio entro il 2030, promuovendo uno sviluppo sostenibile e una trasformazione rurale inclusiva.

Da Glasgow una buona notizia sulle foreste e sull’uso del suolo: oltre 100 capi di Stato oggi alla COP26 sul Clima hanno firmato la Dichiarazione dei leader di Glasgow sulle foreste e l’uso del suolo e il WWF incoraggia l’attuazione urgente di questo importante impegno. La Dichiarazione si impegna ad arrestare e invertire la perdita di foreste e il degrado del territorio entro il 2030 e prevede di impiegare 12 miliardi di dollari di fondi pubblici per proteggere e ripristinare le foreste, insieme a 7,2 miliardi di dollari di investimenti privati. La Dichiarazione, inoltre, è ben allineata con l’impegno di molti di questi governi di invertire la perdita di biodiversità entro il 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvando il Leaders’ Pledge for Nature.


Non solo salute umana ed ecosistemi terrestri e marini. Il buco dell’ozono influisce anche sui processi chimici ambientali del Polo Sud. A dimostrarlo un team di ricerca internazionale coordinato dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) e dell’Università Ca’ Foscari Venezia che ha studiato per la prima volta le conseguenze della riduzione dell’ozono sullo iodio intrappolato nel ghiaccio antartico.

I risultati dello studio, al quale hanno preso parte anche ricercatori del Paul Scherrer Institut (PSI, Svizzera), Istitute for Interdisciplinary Science (Icb-Conicet, Argentina), Institute of Physical Chemistry Rocasolano (Csic, Spagna), Korea Polar Research Institut (Corea del Sud), National Center for Atmospheric Research (Stati Uniti) e Università di Roma 3, sono pubblicati sulla rivista Nature Communications.

In Antartide, dove il ghiaccio racchiude preziose informazioni sul passato dell’atmosfera del nostro pianeta, i ricercatori hanno estratto una carota di ghiaccio di circa 12 metri di lunghezza nei pressi della stazione di ricerca internazionale Concordia con l’obiettivo di analizzare chimicamente l’evoluzione temporale dello iodio in un periodo di circa 200 anni (dal 1800 al 2012).

 

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