Ambiente

Ambiente (631)



Due studi dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isafom) pubblicati sulle riviste Science of the Total Environment e Agricultural and Forest Meteorology analizzano la capacità di sequestro e stoccaggio del carbonio in diversi scenari di gestione forestale e cambiamento climatico degli ecosistemi forestali in Europa. I risultati dell’indagine aiutano a comprendere gli effetti del cambiamento climatico in atto e il peso dell'impatto antropico sulle foreste.

Le foreste hanno la capacità di sequestrare carbonio atmosferico e di stoccarlo nella biomassa. Questa caratteristica è influenzata dal cambiamento climatico in atto. Un team internazionale guidato da Daniela Dalmonech, assegnista di ricerca del Laboratorio di modellistica forestale (Forest Modelling Lab) presso l’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isafom) di Perugia, cerca di fare luce sul possibile futuro delle foreste europee e sul ruolo della gestione forestale nel contrasto agli effetti del cambiamento climatico, analizzati con un approccio modellistico.

 

Uno studio condotto da due istituti di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia e altri partner internazionali, ha ricostruito le variazioni della copertura di ghiaccio marino sub-polare in risposta ai rapidi riscaldamenti climatici verificatisi durante l’ultima era glaciale. Il lavoro è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista americana PNAS

 

Uno studio condotto da due istituti di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche - Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (Isac) e Istituto di scienze polari (Isp) - in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia, l’Università di Padova e con diversi istituti internazionali (AWI, CIC, CSIC, PSI), ha ricostruito, ad alta risoluzione temporale, l’evoluzione della copertura di ghiaccio marino nella regione sub-polare compresa tra la Baia di Baffin e il Mare del Labrador, prendendo in esame una serie di oscillazioni repentine del clima avvenute tra 36 e 44 mila anni fa. La ricerca è pubblicata su Proceedings of the National Academy of Science (PNAS).

 

L'estate più calda mai registrata in Europa e il suo impatto drammatico sul sistema agricolo

Di fronte alla crisi climatica siamo spesso portati a considerarci impotenti e a demandare alle decisioni delle istituzioni e delle aziende. Invece ogni scelta che facciamo ha ripercussioni non solo dirette, ma anche indirette sulle emissioni totali di gas serra, orientando l’economia, e quindi può favorire la lotta al cambiamento climatico. Questo è particolarmente vero quando parliamo di abitudini di vita, a cominciare da quelle alimentari.

Il sistema alimentare rappresenta il 29% dell’impronta ecologica globale delle attività umane: il cibo infatti deve essere coltivato, raccolto, pescato, allevato e poi trasformato, trasportato, confezionato, distribuito, cucinato e spesso sprecato. In ognuno di questi passaggi consumiamo risorse e provochiamo emissioni di gas serra che contribuiscono al cambiamento climatico. Il 23% delle emissioni di gas serra prodotte dalle attività umane deriva dall’agricoltura (incluse silvicoltura e altri usi del suolo) e oggi sono 5,3 i milioni di km2 di aree naturali convertite in terreni agricoli, corrispondenti a poco meno della superficie di tutta l’Europa continentale (esclusa la Russia). L’agricoltura intensiva inoltre compatta il suolo, aumenta l’erosione e riduce la quantità di materiale organico nel terreno. L’uso di fertilizzanti artificiali ha causato il raddoppiamento delle emissioni di protossido di azoto, un potente gas serra, negli ultimi 50 anni. Gli allevamenti intensivi da soli sono responsabili del 14,5% delle emissioni globali, paragonabili all’intero settore dei trasporti globale.

WWF: living planet report 2022

13 Ott 2022 Scritto da

 

Il WWF ha pubblicato il rapporto sul Pianeta vivente, bilancio drammatico per la fauna selvatica: in America Latina e Caraibi popolazioni diminuite in media del 94% dal 1970. In 50 anni le popolazioni do vertebrati sul pianeta sono crollate in media del 69%. Fra le specie di acqua dolce si registra il maggior declino a livello globale: sono calate dell’83%

Il Living Planet Index del rapporto mostra che non c’è tempo da perdere se vogliamo una società ‘nature-positive’. Il WWF: dobbiamo dimezzare l’impronta globale di produzione e consumo entro il 2030.

È un calo medio devastante quello subìto dalle popolazioni di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci dal 1970 in tutto il mondo: le popolazioni di fauna selvatica monitorate dal Living Planet Report (LPR) 2022, il rapporto biennale sulla salute del pianeta, che il WWF lancia oggi a livello globale, sono calate in media del 69%.


I cambiamenti nelle temperature superficiali dell’Oceano Atlantico osservati negli ultimi decenni sono condizionati da influssi esterni, come le emissioni di gas serra e le polveri contenenti solfati. È quanto risulta da una ricerca coordinata dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr e pubblicata su Theoretical and Applied Climatology Un recente studio dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia), coordinato dal ricercatore Antonello Pasini in collaborazione con Stefano Amendola, del Centro di montagna dell’Aeronautica militare ed Emmanuel Federbusch della Ecole National Supérieure de Techniques Avancées di Parigi, mostra come i cambiamenti nelle temperature superficiali dell’Oceano Atlantico siano di natura antropica . Lo studio è pubblicato sulla rivista internazionale Theoretical and Applied Climatology.

 


Uno studio internazionale a cui ha preso parte la Sapienza ha analizzato i fattori ecologici ed evolutivi che spingono scimmie e lemuri che vivono sugli alberi a terra. La ricerca condotta su larga scala nei primati di 3 continenti, è stata pubblicata sulla rivista PNAS
Uno studio internazionale su 47 specie di scimmie e lemuri ha evidenziato come i cambiamenti climatici e le deforestazioni interferiscano sullo stile di vita dei primati. L’influenza dei cambiamenti ambientali porta molti di questi animali, che vivono normalmente sugli alberi, a cambiare le proprie abitudini, spingendoli a scendere a terra, dove sono più esposti a fattori di rischio come la mancanza di cibo, i predatori, la presenza dell’uomo e degli animali domestici.

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS (The Proceedings of the National Academy of Sciences) è stato coordinato da Timothy Eppley, ricercatore presso il San Diego Zoo Wildlife Alliance (SDZWA), e vede la straordinaria collaborazione a livello mondiale di 118 co-autori provenienti da 124 istituti diversi, tra cui Luca Santini della Sapienza di Roma che ha co-ideato e supervisionato il lavoro. I risultati si basano su circa 150.000 ore di dati di osservazione riguardanti 15 specie di lemuri e 32 specie di scimmie in 68 siti nelle Americhe e in Madagascar.


Nell’Antartide Orientale, enormi ghiacciai si trovano in bacini al di sotto del livello del mare. Comprendere la risposta di questi ghiacciai all’innalzamento delle temperature atmosferiche e oceaniche è cruciale per migliorare gli scenari futuri di innalzamento dei mari.

Uno studio internazionale pubblicato su Nature Communications da ricercatrici dell'Università Ca’ Foscari Venezia in collaborazione con il centro di ricerca francese Lsce, il Cnrs e l’Università Roma Tre dimostra che i ghiacciai costieri dell’Antartide Orientale durante i passati periodi caldi non erano stabili, a differenza di quanto indicato fino ad oggi dalla maggior parte della letteratura scientifica.

Lo studio si è concentrato sui ghiacciai costieri ospitati dal bacino subglaciale di Wilkes, la cui fusione potrebbe far innalzare il livello del mare globale di ben 3 metri. Durante i passati periodi caldi del pianeta, rivela la ricerca, questi ‘ghiacciai al di sotto del livello del mare’ sono stati molto più sensibili all’aumento delle temperature dell’Oceano Australe di quanto finora ipotizzato. I ricercatori sono giunti a questo risultato analizzando la composizione isotopica delle molecole di acqua contenute in una carota di ghiaccio nota come “Taldice” (dal nome del progetto europeo che ne ha finanziato l’estrazione) proveniente da Talos Dome, una zona semi costiera dell’Antartide Orientale. Gli isotopi dell’acqua consentono agli scienziati di ricostruire le temperature del passato.

Il monitoraggio delle precipitazioni invernali e primaverili permette di prevedere stati di crisi estive e di indirizzare il trattamento più adatto delle coltivazioni della vite.

Interessanti risultati emergono dalle attività di ricerca del gruppo di idrogeologia dell’Università di Trieste nell’ambito del progetto interregionale Acquavitis dedicato allo sviluppo di soluzioni innovative per l’uso efficiente dell’acqua per combattere i cambiamenti climatici.

Il monitoraggio delle precipitazioni nel corso di tutto l’anno è strategico per determinare il dosaggio idrico delle coltivazioni vinicole, sia per andare incontro alle reali esigenze della pianta per un raccolto di qualità, sia per favorire un uso razionale dell’acqua. È questo, in sintesi, quanto è emerso dalle attività di ricerca del gruppo di idrogeologia dell’Università di Trieste coordinato da Luca Zini, docente del Dipartimento di Matematica e Geoscienze, nell’ambito del progetto interregionale Italia-Slovenia Acquavitis, finalizzato alla comprensione delle dinamiche di accumulo ed utilizzo di acqua nel vigneto per delineare nuove strategie di utilizzo razionale dell'acqua. I dati raccolti dalle attività di ricerca dei sei partner1 rappresentano ora un punto di riferimento strategico per l’avvio di nuovi protocolli di irrigazione finalizzati a fornire acqua alle viti solo quando e dove necessario e comunque nelle quantità minime a garantire qualità e quantità della produzione. Tutti i dati e le esperienze acquisite, sono stati resi disponibili su una piattaforma on-line (https://www.acquavitis.eu/) utilizzabile da agricoltori, studenti e ricercatori.


Un nuovo studio del Dipartimento di Scienze e biotecnologie medico-chirurgiche ha messo a punto un dispositivo che individua il batterio Escherichia coli anche a basse concentrazioni e può essere riutilizzato grazie a un processo di disinfezione alimentato dalla luce solare. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science: Nano
La contaminazione di condotte idriche con batteri o virus, oltre a costituire un problema di salute pubblica, rappresenta una questione di biosicurezza particolarmente rilevante per ogni Paese.

Sebbene i sistemi di allerta precoce che monitorano la qualità delle acque potabili siano necessari per tutelare la popolazione, le principali tecniche per il rilevamento dei patogeni richiedono attrezzature costose, personale specializzato e un consumo massiccio di reagenti e attrezzatura da laboratorio monouso.

I biosensori, ovvero dispositivi analitici che combinano componenti biologici e rivelatori fisico-chimici per individuare sostanze chimiche e biologiche, rappresentano dunque un’alternativa valida ed efficace, rispetto alle metodiche di rilevamento attualmente in uso.


L’Università degli Studi di Milano propone due progetti per l’agricoltura studiati partendo dal cambiamento climatico in atto: dall’uso irriguo delle acque reflue depurate, riutilizzate in un’ottica di economia circolare, all’efficientamento dell’irrigazione durante la primavera e l’estate, per minimizzare gli effetti degli sbalzi
termici. Cercare di fronteggiare il cambiamento climatico in un settore particolarmente fragile come quello agricolo attraverso l’adattamento e lo sfruttamento del cambiamento climatico stesso: sono questi gli obiettivi principali di due progetti dell’Università degli Studi di Milano per efficientare il consumo di acqua, dedicati soprattutto a vigneti e coltivazioni di mais e riso.
Si tratta di ADAM (ADAttamento al cambio climatico con irrigazione Multifunzionale per la viticoltura) e di DWC (Digital Water City), coordinati dal Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali (DISAA) della Statale.

Gestione multifunzionale dell’irrigazione per i vitigni
Gli effetti del cambiamento climatico come l’intensificarsi di fenomeni meteorologici estremi (gelate tardo primaverili, ondate di calore estive, siccità) stanno creando criticità anche in un settore che fino ad ora si era dimostrato maggiormente resiliente: quello vitivinicolo. Settore strategico per l’Italia, che fino ad oggi sembrava risentire meno di altre colture anche degli effetti della scarsità idrica ma che ora teme per la qualità di produzione delle uve a marchio italiano, famose in tutto il mondo, con un fatturato da 1,7 mld di euro in export solo per il primo trimestre 2022 (dati elaborati dall' Osservatorio di Unione Italiana Vini). In quest’ambito, la Statale di Milano ha studiato il progetto ADAM (ADAttamento al cambio climatico con irrigazione Multifunzionale per la viticoltura), cofinanziato da Regione Lombardia nell’ambito del “Bando per il finanziamento di progetti di ricerca in campo agricolo e forestale”. La gestione multifunzionale dell’irrigazione, che si è svolta in via sperimentale nella stagione 2020 e 2021 presso alcuni vitigni di Chardonnay, ha evidenziato come l’irrigazione può essere utilizzata come protezione dalle gelate tardive primaverili (l’erogazione continua dell’acqua ha permesso di proteggere le gemme con uno strato di ghiaccio in continua formazione) e dagli eccessi termici estivi (con una riduzione media della temperatura dell’aria tra i 2.5°C e i 3°C durante gli episodi più significativi), garantendo la produzione e la qualità delle uve in funzione dell'obiettivo enologico prefissato. Inoltre, le pratiche suggerite consentono di produrre consistenti risparmi di volumi idrici e di nutrienti utilizzati e miglioramenti tangibili sulla qualità e quantità delle produzioni a beneficio dell’ambiente ma anche dell’economia aziendale. Infatti, il sistema di irrigazione a goccia automatizzato, associato a quello climatizzante tramite spruzzatori, permette la gestione della risorsa idrica in modalità efficiente, portando l’agricoltore ad impegnare la quantità idrica che tradizionalmente utilizza soltanto a protezione dallo stress idrico anche per proteggere il vigneto da eccessi termici estivi e gelate tardive, incrementando la resa e la qualità delle uve ottenute. “Un occhio di riguardo nelle nostre ricerche va sicuramente nella direzione della sostenibilità economica e ambientale. Ecco perché diventa fondamentale adottare pratiche irrigue innovative, in grado di garantire alle piante sia un’adeguata nutrizione idrica, sia un’efficace protezione dagli eccessi, con un elevato livello di automatizzazione della gestione degli interventi”, spiega il coordinatore del progetto Claudio Gandolfi, docente di Idraulica Agraria e Sistemazioni idraulico-forestali dell’Università Statale di Milano.


Utilizzo irriguo delle acque reflue depurate
Altro progetto che vede l’acqua come protagonista, è Digital Water City DWC, progetto H2020 di economia circolare, a cui la Statale partecipa con altre capitali europee (Berlino, Parigi, Copenaghen, Sofia). Il progetto prevede un utilizzo irriguo per le acque reflue, partendo dal depuratore situato a sud di Milano (Peschiera Borromeo): è stato creato un unico percorso che si sviluppa dal momento della produzione delle acque reflue, al loro trattamento, al controllo delle qualità dello scarico fino al riuso in agricoltura. In questo modo, l’acqua trattata non viene più scaricata nel fiume Lambro, come succede ora, ma controllata durante tutto il percorso e riutilizzata direttamente per l’irrigazione attraverso impianti ad alta efficienza.
Grazie a sistemi di monitoraggio con telerilevamento e droni per capire quando è il miglior momento per irrigare, l’intera filiera viene digitalizzata e monitorata attraverso una APP (un cosiddetto match-making tool per gli agricoltori e gestori dell’impianto e consorzio d’irrigazione per avere informazioni su qualità e quantità acqua disponibile), la cui interpretazione delle immagini è realizzata in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche. Al progetto ha partecipato anche l’Istituto Superiore di Sanità che ha seguito le procedure per la gestione del rischio a livello dell’impianto di depurazione. “In prospettiva, con le tecniche proposte dal progetto, si potrebbero irrigare circa 2000 ettari con acque riciclate (pari a circa 2.800 campi da calcio), tutta acqua che attualmente viene scaricata nel Lambro e solo in parte eventualmente riutilizzata in seguito, ma in modo meno efficiente e controllato. Inoltre, grazie alle pratiche di depurazione che assicurano un’elevata qualità delle acque trattate, è anche possibile ipotizzare lo sviluppo di filiere a km 0 grazie alla prossimità con la città di Milano”, afferma il coordinatore del progetto Gian Battista Bischetti, docente di Idraulica Agraria e Sistemazioni idraulico-forestali alla Statale e Direttore del Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali DiSAA.

 

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