
Ambiente (631)
Materiali biopolimerici sottoposti a un processo di degradazione, rispettivamente in mare e sabbia, hanno mostrato tempi di degradazione comparabili a quelli di materiali non bio. L’esperimento ha coinvolto studiosi del Consiglio nazionale delle ricerche, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e del Distretto ligure per le tecnologie marine Lo studio pubblicato su Polymers.
Se disperse nell’ambiente anziché conferite correttamente nel compost, anche le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio. Lo dimostrano i risultati di un innovativo esperimento condotto congiuntamente da Consiglio nazionale delle ricerche - coinvolto con l’Istituto dei processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) e l’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar), Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e Distretto ligure per le tecnologie marine (Dltm), con il supporto di Polizia di Stato-Centro Nautico e Sommozzatori La Spezia (CNeS).
Su Science uno studio del Politecnico spiega come salvare il delta del Mekong dall'innalzamento dei mari.
09 Mag 2022 Scritto da Politecnico di Milano
Il delta del Mekong in Vietnam potrebbe essere quasi completamente sommerso dall'acqua del mare entro la fine del secolo, se non verranno intraprese azioni urgenti. Un team di ricerca internazionale di cui fa parte il Politecnico di Milano, in un articolo pubblicato sulla rivista Science, ha individuato delle azioni concrete per impedire che questa area economicamente molto importante e densamente popolata finisca sott’acqua.
La maggior parte dei 40.000 km2 del delta del Mekong si trova a 2 metri sotto il livello del mare, è quindi soggetto all'innalzamento degli oceani dovuto al riscaldamento globale. Inoltre, azioni locali come il pompaggio eccessivo delle acque sotterranee, l'estrazione di sabbia impiegata poi nel settore delle costruzioni e il rapido sviluppo dell'energia idroelettrica, minacciano il futuro delle risaie più produttivo del Sud-Est asiatico. Il team della ricerca, di cui fa parte il Politecnico, sostiene che solo un'azione concertata dei sei Paesi nel bacino del Mekong (Cina, Laos, Tailandia, Cambogia, Vietnam) e una migliore gestione dell'acqua e dei sedimenti all'interno del delta potrebbero evitare tali risultati.
Uccelli alpini a rischio per il riscaldamento globale: una speranza dai “rifugi climatici” alpini
27 Apr 2022 Scritto da Università degli studi di Milano
Nel giro di 50 anni le aree a disposizione di pernice bianca, fringuello alpino e altre specie di alta montagna potrebbero ridursi drasticamente a causa del cambiamento climatico: per la loro sopravvivenza è fondamentale e urgente la salvaguardia di alcune aree alpine che possono fungere da veri rifugi climatici. Lo studio condotto dal Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università Statale di Milano pubblicato su Global Change Biology.
La pernice bianca, lo spioncello, il sordone e il fringuello alpino, quattro specie di uccelli associate agli ambienti alpini e ai climi freddi che li caratterizzano, sono a rischio estinzione a causa dei cambiamenti climatici in atto negli ambienti di alta montagna sulle Alpi, dove gli effetti del riscaldamento globale sono più evidenti. Tuttavia, possono sopravvivere grazie alla salvaguardia di circa 15,000 km2 di rifugi climatici, ovvero aree che rimarranno idonee per queste specie a prescindere dal modello climatico considerato. Lo studio internazionale, coordinato da Mattia Brambilla ricercatore in Ecologia presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano, è stato appena pubblicato su Global Change Biology. La ricerca ha utilizzato modelli di distribuzione particolarmente accurati, realizzati grazie a decine di migliaia di dati di distribuzione relativi alla presenza di queste specie su tutto l’arco alpino, ottenuti da numerosi portali web di citizen science utilizzati da ornitologi professionisti e amatoriali. I modelli di distribuzione, basati su variabili climatiche, topografiche e di uso del suolo, sono stati “proiettati” su diversi scenari rappresentanti le condizioni attuali e quelle future, permettendo così di valutare le probabili variazioni nell’areale delle diverse specie.
La resilienza degli ecosistemi dell’Adriatico e l’impatto dell’attività umana sulle aree costiere
21 Apr 2022 Scritto da RedazioneUno studio sui molluschi fossili mostra che la fauna marina ha saputo adattarsi alle trasformazioni del clima avvenute negli ultimi 130.000 anni, ma l’impatto dell’attività umana sulle aree costiere rischia di superare i limiti di adattabilità degli ecosistemi
Gli ecosistemi marini dell’Adriatico si sono dimostrati resilienti alle variazioni climatiche avvenute negli ultimi 130.000 anni e potrebbero quindi riuscire ad adattarsi ad un aumento limitato delle temperature, se verrà ridotto e controllato l’impatto diretto dell’attività umana sulle aree costiere.
A mostrarlo sono i risultati di un nuovo studio pubblicato sulla rivista Global Change Biology e guidato da Daniele Scarponi, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna. “I dati emersi dalle associazioni fossili che abbiamo analizzato documentano la varibilità delle comunità in relazione ai mutamenti climatici del passato e sottolineano la capacità di adattamento che la fauna marina dell’Adriatico ha mostrato rispetto ai cambiamenti ambientali di lungo periodo avvenuti negli ultimi 130.000 anni”, spiega Scarponi. “Al tempo stesso, questi risultati sono un riferimento per valutare l’impatto dell’attività umana sulle regioni costiere che, tra inquinamento, pesca intensiva e introduzione di specie invasive, rischia di portare queste aree al di fuori dei
limiti di adattabilità degli ecosistemi marini”.
Ogni cittadino europeo ne consuma in media 60 chilo di soia l'anno: nuovo studio del WWF per la campagna Food4Future.
Nuovo studio WWF per la campagna Food4Future: il 75% della soia prodotta (340 milioni di tonnellate) è destinato alla produzione di mangimi, causando la distruzione della natura in Sud America
Non avete mai assaggiato il tofu, non siete vegani né vegetariani e forse siete convinti che la soia non sia presente nella vostra alimentazione. Non è così: chi mangia carne, pesce, uova o formaggi in realtà sta inconsapevolmente consumando una grande quantità di soia.
COME FESTEGGIARE SENZA SPRECHI, ALLEGGERENDO IL NOSTRO IMPATTO SUL PIANETA
Con l’arrivo della Pasqua aumentano i consumi, ma ci sono alcune semplici scelte che in questo periodo possiamo fare per festeggiare alleggerendo il nostro impatto sul Pianeta.
Ecco i 7 consigli del WWF per una Pasqua sostenibile:
1 – Decorazioni Fai-da-te
Non c’è bisogno di acquistare troppe decorazioni, possiamo crearne alcune con uova dipinte, nastri, fiori di carta e altri materiali di riciclo. Se non abbiamo i colori per dipingere le nostre uova, ricordiamoci che si possono realizzare anche con cibi e spezie: la curcuma per tingere di giallo, la paprika per l’arancione, le rape rosse per il fucsia, il caffè per il marrone, gli spinaci per il verde, il vino rosso per il viola. E soprattutto non dimentichiamoci di utilizzare l’interno delle uova per preparare le nostre ricette tradizionali con prodotti locali.
Siccità eccezionali, come quella che ha colpito il bacino padano in questi ultimi tre mesi, saranno sempre più frequenti: negli ultimi 20 anni se ne sono succedute diverse di analoga eccezionalità (2003, 2006) che però si sono manifestate stagionalmente più avanti, ora invece ci affacciamo alla primavera con una carenza d’acqua impressionante. Sono previste piogge e qualche precipitazione c’è già stata, ma non sarà facile colmare il deficit che si è creato. Dobbiamo peraltro sperare che le precipitazioni non si verifichino tutte insieme, concentrate in pochi giorni o poche ore, o in alcune zone, come è avvenuto spesso in questi ultimi anni, con danni incalcolabili al territorio e all’economia locale.
Uno studio del Cnr-Irsa ha rilevato che, in acqua, i batteri che crescono sulle microparticelle derivate dagli pneumatici sono più pericolosi per l’ambiente rispetto a quelli che si sviluppano sui frammenti delle bottiglie di plastica, che invece potrebbero porre problemi per la salute dell’uomo.
La ricerca è pubblicata su Journal of Hazardous Materials Plastiche e microplastiche sono riconosciute come un inquinante emergente con effetti nefasti sulla salute dell'ambiente, dell'uomo e degli animali acquatici.
Uno studio dell’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche di Verbania (Cnr- Irsa) ha dimostrato come microplastiche diverse possano causare un impatto differente sulle comunità batteriche in acqua. La ricerca è stata pubblicata su Journal of Hazardous Materials. “In un sistema che replica un fiume o un lago italiano abbiamo comparato le comunità batteriche che crescono sul polietilene tereftalato (Pet) ricavato da una bottiglia di bibita, molto abbondante in acqua, con quelle che si sviluppano su particelle di pneumatico usato, quasi sconosciute a causa del fatto che tendono a non galleggi are e ad affonda re molto lentamente”, spiega Gianluca Corno del Cnr-Irsa.
L’abete rosso in Scandinavia: una colonizzazione che ha avuto inizio più di 10.000 anni fa
31 Mar 2022 Scritto da Università di Roma La Sapienza
La recente scoperta di antichi resti di DNA antico, presenti nei sedimenti lacustri al margine meridionale della calotta glaciale scandinava e attribuibili all'abete rosso, porta nuova luce sulle dinamiche di risposta delle foreste ai cambiamenti climatici del passato. Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, è stato pubblicato su Nature Communications
L'abete rosso è oggi la specie arborea più comune in Fennoscandia, la parte d'Europa che comprende la Finlandia e la penisola scandinava. Diversi studi, basati su ritrovamenti di polline fossile di abete in antichi sedimenti lacustri, hanno dimostrato che ci sono volute diverse migliaia di anni prima che questa specie giungesse in Svezia dopo l'ultima glaciazione e diventasse la specie dominante delle foreste scandinave. Secondo tali analisi l'abete sarebbe giunto in Svezia dal nord-est solo 2.000 anni fa.
Ricercatori dell’Istituto di chimica dei composti organometallici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iccom) in collaborazione con l’ETH di Zurigo, a partire da un complesso organometallico di rutenio, hanno realizzato una cella elettrolitica per la produzione di idrogeno verde dall’acqua. Le ricadute della ricerca riguardano sia la chimica fondamentale che nuove prospettive per la produzione sostenibile di idrogeno. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Chemical Science
Ricercatori dell’Istituto di chimica dei composti organometallici del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con l’ETH di Zurigo hanno scoperto che la produzione di idrogeno verde dall’acqua può essere promossa da singoli atomi di rutenio. I ricercatori hanno dimostrato per la prima volta che un complesso organometallico dinucleare di rutenio è un attivo catalizzatore per la generazione di idrogeno in una cella elettrolitica a membrana polimerica (PEM). L’apparato realizzato su piccola scala di laboratorio produce 28 litri di H2 (diidrogeno) per grammo di rutenio al minuto. In sette giorni di attività non si registrano fenomeni di degradazione del catalizzatore. Al momento l’efficienza non è paragonabile ad un sistema commerciale, ma rappresenta una proof of concept per una nuova classe di elettrolizzatori. La ricerca è stata recentemente pubblicata sulla rivista Chemical Science.