Aperta la strada a una nuova forma di immunoterapia contro il cancro che richiama la memoria dei vaccini pediatrici.


C’è un nuovo tassello nella conoscenza di come il sistema immunitario combatte il cancro e soprattutto di come possa essere aiutato a farlo. Il 'mantello dell’invisibilità' che i tumori indossano per nascondersi dalle nostre difese immunitarie può essere sollevato, così che l’immunoterapia possa funzionare anche contro le neoplasie che non rispondono alle terapie standard. Potrebbe essere possibile risvegliare la memoria immunitaria di vaccinazioni eseguite da bambini: iniettando nel tumore gli antigeni contro cui erano diretti i vaccini dell’infanzia, la risposta immune si riattiva e si dirige sul tumore, attaccandolo.


Uno studio dell’Università degli Studi di Milano ha evidenziato la presenza di cotinina, un prodotto della nicotina, nel siero e nel pelo dei cani esposti al fumo passivo. La pubblicazione su MDPI.

Anche i cani subiscono gli effetti nocivi del fumo passivo: lo ha stabilito una ricerca dell’Università degli Studi di Milano coordinata da Debora Groppetti, docente di Clinica Ostetrica e Ginecologia veterinaria presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze Animali e pubblicata di recente su MDPI.
Il cane è un animale domestico molto diffuso che, condividendo con l’uomo spazi, abitudini e cibo, potrebbe essere esposto agli stessi rischi e malattie ambientali. Negli ultimi due decenni, gli effetti dannosi dell'esposizione al fumo passivo su bambini e adulti sono stati ampiamente discussi e sottolineati attraverso campagne di salute pubblica, ma non è stata posta enfasi sui rischi che gli animali domestici possono incontrare.

 

Un team di ricercatori dell'Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Icb) rivela come un componente non-psicoattivo della Cannabis sia in grado di colpire il metabolismo del carcinoma prostatico, aprendo la strada al possibile uso di cannabinoidi non psicotropi come coadiuvanti per il trattamento del cancro alla prostata. Lo studio è pubblicato su Pharmacological Research

Uno studio condotto da un team di ricercatori dell'Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Icb) rivela come un componente non-psicoattivo della Cannabis (CBD) sia in grado di contrastare la fase in cui il carcinoma prostatico diventa refrattario alla terapia ormonale.

La ricerca - coordinata da Alessia Ligresti (prima ricercatrice del Cnr-Icb di Pozzuoli) in collaborazione con Roberto Ronca (docente dell’Università degli studi di Brescia) - ha, infatti, dimostrato l'esistenza, in questa fase della malattia, di vulnerabilità metaboliche e oncogeniche che possono essere potenzialmente sfruttate terapeuticamente da trattamenti a base di fitocannabinoidi: in questo caso, il componente individuato è in grado di colpire specificamente la plasticità metabolica del carcinoma modulando la bioenergetica dei mitocondri, la “centrale elettrica” delle cellule. Lo studio è pubblicato sulla rivista Pharmacological Research.


L’immunoterapia è un’opzione terapeutica estremamente promettente per molte patologie tumorali. Tuttavia nel tumore del colon-retto, che rappresenta la seconda causa di morte per motivi oncologici a livello mondiale, il suo impiego è oggi fortemente limitato. Questo perché in gran parte dei casi – pari a circa il 95% dei pazienti metastatici – i tumori del colon sono immunologicamente “freddi”, ovvero refrattari all’immunoterapia, e solo il 5% sono invece tumori “caldi” in grado di trarre beneficio da questi trattamenti innovativi. La differenza è verosimilmente dovuta ai meccanismi di riparazione del DNA e più precisamente a quello che gli scienziati chiamano mismatch repair (MMR). “Nel 95% circa dei pazienti con cancro del colon retto metastatico – illustra il professor Alberto Bardelli, Direttore del programma di ricerca IFOM Genomica dei tumori e terapie anticancro mirate e Professore Ordinario all’Università degli Studi di Torino – questo meccanismo di riparazione è integro e funzionante. Pertanto questi tumori risultano immunologicamente freddi e refrattari all’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint immunitari. Solo nel restante 5% circa dei pazienti il tumore ha perso questo meccanismo di riparazione del DNA e, di conseguenza, è caratterizzato da un’elevata produzione di proteine alterate che in gergo si chiamano neoantigeni. Tali proteine attraggono le cellule del sistema immunitario rendendo il tumore efficacemente trattabile con l’immunoterapia”.

 

Uno studio nato dalla collaborazione tra gli istituti Ieos e Isasi del Cnr, i cui risultati sono stati pubblicati su Frontiers in Bioengineering and Biotechnology, ha portato allo sviluppo di un sistema diagnostico per immagini che consente di identificare le cellule tumorali nel sangue attraverso il metabolismo del glucosio. Il suo utilizzo, una volta validato in ulteriori studi preclinici e clinici, potrà facilitare la diagnosi e la scelta delle terapie più appropriate per combattere i tumori.

 Un gruppo di ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ha sviluppato e combinato nuove tecnologie di imaging che, analizzando la luce che attraversa le cellule e il loro metabolismo, permettono l’identificazione delle cellule tumorali circolanti nel sangue (CTC). Le CTC, verosimilmente responsabili della diffusione delle metastasi, derivano da tumori solidi e circolano nel sangue periferico ma, essendo presenti in quantità minime, sono difficili da individuare ed eliminare con i farmaci attualmente disponibili. I ricercatori coinvolti nella ricerca, che è stata pubblicata sulla rivista Frontiers in Bioengineering and Biotechnology, afferiscono all’Istituto di endocrinologia e oncologia sperimentale ‘G. Salvatore’ (Cnr-Ieos) e all’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti (Cnr-Isasi) di Napoli.


Le analisi macroscopiche, microscopiche e la tomografia computerizzata su un cranio rinvenuto nei pressi di Ascoli Piceno hanno rivelato i segni di almeno due operazioni chirurgiche. Lo studio, pubblicato sulla rivista International Journal of Osteoarchaeology, è stato condotto da un team internazionale e multidisciplinare coordinato dalla Sapienza
Un nuovo studio internazionale, coordinato da Sapienza in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il McDonald Institute for Archaeological Research di Cambridge, le Università di Aix-Marseille e di Caen in Francia e l’Università di Washington, rivela l'esistenza di trapanazioni nel cranio di una donna longobarda, rinvenuto nel cimitero di Castel Trosino, presso Ascoli Piceno.


Lo studio dell’Università di Pisa è stato pubblicato sulla rivista The Plant Journal


Una ricerca dell’Università di Pisa ha rivelato un meccanismo genetico alla base della creazione di nuovi geni nel genoma di una pianta superiore. La chiave di tutto sono delle particolari sequenze di DNA chiamate “retrotrasposoni” che nel corso dell’evoluzione hanno assunto nuove funzioni indipendenti da quelle originarie, un meccanismo definito dallo scienziato statunitense Stephen Jay Gould con il termine di esaptazione. Lo studio è stato appena pubblicato su The Plant Journal, una delle più importanti riviste scientifiche sulle piante.

“I retrotrasposoni – spiega il professore Andrea Cavallini genetista del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Ateneo pisano - sono veri e propri organismi autonomi presenti in quantità molto abbondante nel genoma di piante e animali, uomo compreso. Il nostro lavoro mostra come, con l’evoluzione, dalle sequenze di DNA dei retrotrasposoni, mediante mutazioni e riarrangiamenti, si sono creati dei nuovi geni, che intervengono in numerosi processi metabolici e nella resistenza a condizioni avverse”.


Uno studio, coordinato dall’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Centro “Aldo Ravelli” della Statale, l’ASST Santi Paolo e Carlo e l’IRCCS Auxologico, ha evidenziato possibili disturbi cognitivi un anno dopo il COVID. È la prima ricerca in ambito internazionale che ha esaminato in modo combinato le alterazioni cognitive, il metabolismo cerebrale a una distanza così ampia dalla malattia. La pubblicazione su Journal of Neurology.


Alterazioni del metabolismo cerebrale e possibile accumulo di molecole tossiche: secondo una ricerca coordinata dall’Università degli Studi di Milano, gli effetti del COVID si ripercuotono sulla memoria anche a distanza di un anno. Questa è la conclusione a cui è giunto lo studio che ha valutato le conseguenze cognitive (memoria, attenzione, linguaggio…), il funzionamento del cervello e, in un caso, anche la deposizione di molecole tossiche nel cervello, in un gruppo selezionato di pazienti che a distanza di un anno dalla malattia lamentavano ancora disturbi e stanchezza mentale.


Un nuovo studio italiano, a cui ha preso parte il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, rivela nuove vie molecolari coinvolte nella diminuzione o perdita dell’olfatto nel long Covid. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Brain, Behavior and Immunity
La disfunzione olfattoria (OD), nota anche come anosmia o iposmia, ovvero la perdita o riduzione dell’olfatto, è uno degli effetti a lungo termine dell’infezione da Covid-19.

Un nuovo studio interamente italiano, frutto della collaborazione fra la Sapienza Università di Roma (Prof.ssa Roberta Lattanzi; Dott.ssa Daniela Maftei, Dott.ssa Martina Vincenzi del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia “Vittorio Erspamer”) il CNR (Dott.ssa Cinzia Severini, Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare, presso Dipartimento di Organi di Senso, Sapienza Università di Roma) e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata (Prof. Nicola Biagio Mercuri, Prof. Francesco Maria Passali, Dott. Tommaso Schirinzi) ha individuato nuove vie molecolari coinvolte in questa manifestazione patologica della sindrome post-Covid. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Brain, Behavior, and Immunity.


Uno studio su un campione di popolazione italiana mostra che chi ne consuma abitualmente ha la pressione sanguigna più bassa, sia a livello periferico che per la pressione aortica centrale: risultati che confermano gli effetti positivi del caffè per la mitigazione del rischio di malattie cardiovascolari.


Il caffè aiuta a mantenere bassa la pressione sanguigna. Chi ne beve due o tre al giorno ha la pressione più bassa rispetto a chi ne beve una sola tazza o a chi non ne prende affatto: un dato che vale sia a livello periferico che per la pressione aortica centrale, quella più vicina al cuore.
È quanto emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista Nutrients, realizzata da studiosi dell’Università di Bologna e dell’IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna - Policlinico di Sant'Orsola. L’indagine ha analizzato l’associazione tra il consumo di caffè e i parametri della pressione periferica e centrale in un campione di italiani. “I risultati che abbiamo ottenuto mostrano che chi beve regolarmente caffè ha una pressione sanguigna significativamente più bassa, sia a livello periferico che a livello centrale, rispetto a chi non ne beve”, spiega Arrigo Cicero, professore al Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna e primo autore dello studio. “Si tratta del primo studio ad osservare questa associazione
sulla popolazione italiana, e i dati confermano l’effetto positivo del consumo di caffè rispetto al rischio cardiovascolare”, aggiunge il prof. Claudio Borghi, responsabile dello studio.

 

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