Ambiente

Ambiente (631)


Un algoritmo può contribuire a preservare gli ecosistemi acquatici alpini, soprattutto in corrispondenza delle zone in cui si registra un’elevata affluenza turistica. A svilupparlo è stato un gruppo di ricercatori di Ecotossicologia dell'Università degli studi di Milano-Bicocca. Lo studio, dal titolo “Environmental risk classification of emerging contaminants in an alpine stream influenced by seasonal tourism” è stato pubblicato su “Ecological Indicators” (DOI: https://doi.org/10.1016/j.ecolind.2020.106428)

Attraverso l'algoritmo messo a punto dai ricercatori, è possibile prevedere la concentrazione di contaminanti emergenti, quali farmaci e prodotti per la cura della persona, che attraverso gli scarichi dei depuratori, raggiungono i torrenti a valle. I depuratori localizzati sulle Alpi, infatti, si ritrovano spesso a dover scaricare direttamente nei fiumi, non essendo stati progettati per gestire un’elevata produzione di reflui, che si verifica soprattutto durante la stagione invernale con un maggiore afflusso turistico. Durante l’inverno, la diluizione nei fiumi e nei torrenti è più bassa, a causa della prevalenza di precipitazioni nevose tipiche delle località di alta montagna che ne abbassano la portata. Minore è la diluizione nelle acque, maggiore sarà la concentrazione degli inquinanti.

 

Il PROGETTO TSM - Già bocciato due volte a causa del devastante impatto sul territorio, il progetto TSM prevede la realizzazione di oltre 7 km di nuovi impianti nelle parti più integre del Terminillo, comportando l’eliminazione di 17 ettari di bosco secolare e provocando ingenti disturbi alla fauna, in violazione delle norme di conservazione delle aree di alto valore ambientale e di quelle sulla Valutazione di Impatto Ambientale. I nuovi impianti (previsti a quote inferiori i 1.900 m), per la cronica mancanza di neve dovuta al cambiamento climatico, non avranno alcuna possibilità di essere redditizi, costituendo di fatto uno spreco di denaro pubblico, utilizzato a discapito di una delle zone montane appenniniche più belle e suggestive, tanto da meritare la tutela dell’Unione Europea attraverso speciali aree di protezione (SIC e ZPS).

I PRINCIPALI IMPATTI SULL’AMBIENTE

●        PAESAGGIO: il TSM intende scavalcare il vincolo della tutela paesaggistica spacciando il progetto come semplice ammodernamento dell’esistente

●        FAGGETE SECOLARI: con il taglio di 17 ettari di faggi secolari si andranno irrimediabilmente a compromettere gli obiettivi di conservazione del SIC del “Bosco della Vallonina”, esponendo l’Italia ad una procedura d’infrazione Europea che comporterebbe milioni di euro di multa

●        RISORSE IDRICHE: i sistemi di innevamento artificiale richiederanno ingenti quantitativi di acqua e creeranno problemi di ricarica delle falde già sottoposte a stress idrico per la crisi climatica in atto

●        ORSO BRUNO MARSICANO: il TSM è in aperta contrapposizione con quanto certificato dall’Università di Roma “La Sapienza” che ha definito “l’intera area come di importanza critica e favorevole per l’espansione dell’areale dell’Orso bruno marsicano”, ricordando che “tale espansione viene riconosciuta come unica strategia possibile e coerente per la conservazione a lungo termine di questa relitta popolazione di orso”.

 

 

L’Ateneo pisano è tra gli enti più premiati dalla partnership promossa dall'Unione Europea con la partecipazione di 19 paesi


Con cinque progetti finanziati – di cui tre come coordinatore e due come partner – l'Università di Pisa si colloca tra gli enti più "premiati" delle prime due edizioni del Programma PRIMA, la partnership per l’innovazione del settore idrico e agro-alimentare nell’area mediterranea promossa dall’Unione Europa con la partecipazione di 19 paesi. Beneficiari di questi finanziamenti sono i dipartimenti di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali e di Scienze veterinarie dell’Ateneo pisano per un contributo totale di circa 1.5 milioni di euro.

Il programma PRIMA è nato con l’obiettivo di costruire conoscenza e soluzioni innovative in ricerca e innovazione per la gestione delle risorse idriche, un’agricoltura sostenibile, cibo e filiera alimentare nell'area mediterranea. Tra i partecipanti ci sono 11 paesi membri dell’UE (Cipro, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Slovenia, Spagna) e Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Tunisia, Turchia. Il programma è finanziato attraverso una combinazione di fondi provenienti in parte dagli Stati aderenti e in parte dal programma Horizon 2020.


Il rapporto della FAO Stato della Pesca e dell'Acquacoltura Mondiale traccia l'incremento della produzione e del consumo di pesce e sottolinea la promessa di interventi a favore della sostenibilità

Il consumo mondiale di pesce ha raggiunto il nuovo record di 20,5 chilogrammi pro capite all'anno e nel prossimo decennio è destinato ad aumentare ulteriormente, evidenziando il suo ruolo fondamentale per la sicurezza alimentare e nutrizionale globale. Secondo il nuovo rapporto dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO), lo sviluppo sostenibile dell'acquacoltura e la gestione efficace delle risorse ittiche sono fondamentali per mantenere questi trend.

Il rapporto  Lo Stato della Pesca e dell'Acquacoltura Mondiale  (SOFIA) indica che nel 2030 la produzione ittica totale è destinata ad arrivare a 204 milioni di tonnellate, un incremento del 15% rispetto al 2018, con la quota dell'acquacoltura in crescita rispetto all'attuale 46%. Tale crescita è pari a circa la metà dell'aumento registrato nei 10 anni precedenti, il che si traduce in un consumo annuo di pesce che si prevede raggiungerà i 21,5 chilogrammi pro capite entro il 2030.

"Il pesce e i prodotti ittici sono considerati non solo tra gli alimenti più sani del pianeta, ma anche tra quelli con minor impatto sull'ambiente naturale", ha detto il Direttore Generale della FAO QU Dongyu, sottolineando che devono svolgere un ruolo più centrale in tutti i livelli delle strategie mirate alla sicurezza alimentare e alla nutrizione.



Stasera su Facebook secondo appuntamento con gli Aperipelagos, gli incontri via social con esperti



Un’esperienza reale di Citizen Science ma soprattutto di ricerca sui protagonisti del nostro mare, i cetacei. Stanno per salpare “Le vele del Panda”, progetto del WWF nato in collaborazione con WWF Travel all’interno della campagna GenerAzioneMare e finalizzato a creare una nuova community di velisti, diportisti, circoli velici, circoli nautici, che sottoscrivono l’impegno a osservare buone pratiche in navigazione e a realizzare attività concrete in difesa dell’habitat marino e di sensibilizzazione del pubblico.
Da domenica 5 luglio 2020 (e ogni domenica a venire) la prima Vela del Panda salperà dal Porto di Santo Stefano (Monte Argentario, una delle porte del Santuario Pelagos) per le crociere di ricerca. E’ il veliero “Mahayana”, lungo 18m interamente in legno, nominato ambasciatore de “Le Vele del Panda” messo a disposizione di cittadini, ricercatori e studenti per campagne di ricerca e sensibilizzazione per la tutela del Mare Nostrum.

Oca Egiziana - Specie africana che frequenta anche le aree urbane dove c’è disponibilità di acqua che è presente anche in Europa come specie introdotta



Lo dimostra un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Global Ecology and Biogeography, condotto da un team di scienziati dell’Università di Torino, dell’Università di Cape Town, dell’Università di Witwatersrand e dell’Accademia Ungherese delle Scienze

Un nuovo studio globale sulla biodiversità urbana ha dimostrato che le aree urbane con maggior benessere ospitano anche una biodiversità più ricca rispetto alle zone più povere, un pattern che gli scienziati hanno chiamato “Luxury Effect” o “Effetto Lusso”. Lo studio ha anche dimostrato che l’entità di questo effetto è molto più grande nelle regioni aride del mondo. Lo studio è stato condotto da un gruppo internazionale di scienziati dell’Università di Torino, dell’Università di Cape Town e dell’Università di Witwatersrand in Sud Africa e dell’Accademia Ungherese delle Scienze. Le loro scoperte sono state pubblicate sulla prestigiosa rivista scientifica Global Ecology and Biogeography.


Un nuovo studio condotto dalla “Missione Archeologica nel Sahara” della Sapienza, in collaborazione con il Department of Antiquities di Tripoli e le università Milano e Modena-Reggio Emilia, ha permesso di scoprire l’esistenza di tecniche di coltivazione realizzate dai Tuareg nelle aree montane del deserto del Sahara. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Antiquity
Il clima arido del Sahara impedisce oggi ogni forma di agricoltura permanente, ma le ricerche condotte dalla “Missione Archeologica nel Sahara” diretta da Savino di Lernia del Dipartimento di Scienze dell’Antichità della Sapienza, in collaborazione con il “Department of Antiquities” di Tripoli e le università di Milano e Modena-Reggio, raccontano una storia diversa.

 

Greenpeace pubblica oggi una  nuova indagine, “Fondi pubblici in pasto ai maiali”, che evidenzia come quasi la metà dei fondi europei destinati alla Regione Lombardia per la zootecnia – ben 120 milioni di euro – siano destinati agli allevamenti intensivi nei comuni con carichi di azoto che eccedono i limiti di legge. Secondo una relazione tecnica della Regione Lombardia, 168 comuni (uno su dieci) sono a rischio ambientale per eccessivi carichi di azoto, principalmente imputabili alle attività di zootecnia intensiva; eppure proprio in quegli stessi comuni gli allevamenti intensivi continuano a ricevere importanti finanziamenti pubblici tramite la PAC (Politica Agricola Comune), mentre le piccole aziende che producono in modo ecologico scompaiono in silenzio.

In Lombardia vengono allevati circa la metà dei suini e un quarto dei bovini del nostro Paese: un carico di liquami da smaltire eccessivo per i territori che ospitano queste attività e che non sembra andare verso una diminuzione, dato che la Regione ha fatto richiesta di deroga per innalzare la soglia massima di chili di azoto per ettaro autorizzata. Un atto che sicuramente tende a soddisfare le esigenze dei grandi allevamenti, ma che mette ulteriormente a rischio la salute delle comunità.

 

Uno studio coordinato dall’Istituto di scienze marine del Cnr ha dimostrato - in una ricerca pubblicata su Science Advances - che le fibre tessili sono estremamente diffuse in mare ma solo l’8% sono effettivamente sintetiche: per lo più sono composte da polimeri naturali, come lana e cotone, i cui tempi di biodegradazione non sono però ancora noti. L’abbondanza e la diffusione è dovuta all’aumento di produzione tessile e agli scarichi dei lavaggi e le concentrazioni più alte sono state rilevate in Mediterraneo e in Antartide,

Un'analisi condotta dall’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismar), in collaborazione con un team di ricercatori sudafricani e australiani, indica che la grande maggioranza delle fibre tessili che galleggiano in oceano sono naturali. Lo studio, pubblicato su Science Advances, ha analizzato 916 campioni di acqua di mare durante 5 spedizioni internazionali condotte in 617 località.
“Abbiamo raccolto 23.593 fibre in sei bacini oceanici differenti e ne abbiamo analizzate circa duemila tramite un microscopio ad infrarossi (µFTIR) per identificarne la composizione polimerica, scoprendo che il 79,5% era a base di cellulosa (principalmente cotone), il 12,3% era a base animale (principalmente lana) e solo l'8,2% era sintetico (principalmente poliestere)”, racconta Giuseppe Suaria, ricercatore del Cnr-Ismar e coordinatore dello studio insieme al Prof. Peter Ryan dell’Università di Cape Town.



Ogni giorno il nostro sistema produttivo rifiuta una quantità enorme di cibo solo perché non è omogeneo nella forma e nella dimensione. Cibo meno ‘bello’ insomma ma buono lo stesso, che non incontra un ideale di ‘perfezione’ o di ‘standard’, che viene sprecato o non utilizzato a fini alimentari. In Italia si calcolano 36 chili di cibo a testa perduti ogni anno lungo tutta la catena di produzione, distribuzione e consumo, che ci costano complessivamente circa l’1% del Pil nazionale, con una stima che oscilla tra i 12 e il 16 miliardi di euro.

In Italia e nel resto d’Europa il 21% dello spreco di frutta e verdura, secondo i dati Fao, avviene direttamente nei campi. Alimenti che vengono scartati, lasciati sui terreni o utilizzati per fare compost, spesso a causa di imperfezioni, di mancata adesione agli standard che l’industria alimentare ha imposto in un primo momento ma che è poi diventata una condizione essenziale per l’accettazione da parte dei consumatori.

 

Scienzaonline con sottotitolo Sciencenew  - Periodico
Autorizzazioni del Tribunale di Roma – diffusioni:
telematica quotidiana 229/2006 del 08/06/2006
mensile per mezzo stampa 293/2003 del 07/07/2003
Scienceonline, Autorizzazione del Tribunale di Roma 228/2006 del 29/05/06
Pubblicato a Roma – Via A. De Viti de Marco, 50 – Direttore Responsabile Guido Donati

Photo Gallery