Ambiente

Ambiente (631)


Lo studio sulla copertina di Nature Food apre nuovi scenari per la sostenibilità nei sistemi agroalimentari.

Uno studio pubblicato sulla copertina di Nature Food, frutto di una collaborazione tra il Politecnico di Milano e l’Università degli Studi di Milano, evidenzia come il maggior utilizzo di sottoprodotti nel settore mangimistico in un’ottica circolare possa portare ad un significativo risparmio dell’uso di suolo e di risorse idriche e quindi a una maggior sostenibilità dei sistemi agroalimentari.


Alla base del lavoro firmato da Camilla Govoni e Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano, Paolo D’Odorico della University of California at Berkeley e di Luciano Pinotti dell’Università degli Studi di Milano c’è una accurata analisi della competizione per le risorse naturali fra produzione di cibo animale e cibo umano e una ricerca di strategie per ridurre sia tale competizione sia l'uso insostenibile delle risorse naturali che da essa può derivare. Lo studio dimostra che una sostituzione dell'11-16% di colture ad alto contenuto energetico attualmente utilizzate come mangime animale (ad es. cereali) con sottoprodotti agricoli consentirebbe di risparmiare circa tra i 15.4 e i 27.8 milioni di ettari di suolo, tra i 3 e 19.6 km3 e tra i 74.2 e i 137.8 km3 di acqua di irrigazione e acqua piovana. Tale risparmio di risorse naturali rappresenta una strategia adeguata per la riduzione dell'uso insostenibile delle risorse naturali sia a livello locale che globale, attraverso cioè il commercio virtuale di suolo e acqua.

Le ricerche UNIPI realizzate nell’ambito del progetto UE FutureMARES.


Le praterie di Posidonia possono ridurre in modo significativo gli effetti dell’acidificazione dei mari, la prova arriva da una specie sentinella come i ricci di mare. E’ questo quanto emerge da alcuni studi condotti dall’Università di Pisa nell’ambito del progetto europeo FutureMARES e pubblicati sulle riviste Science of the Total Environment e Environmental Research.

I ricercatori dell’Università di Pisa hanno condotto gli esperimenti nei mesocosmi collocati presso l’Acquario di Livorno, un sistema di vasche di grandi dimensioni che riproduce gli ecosistemi marini. Le analisi hanno dimostrato che Posidonia oceanica, la principale pianta marina che popola il Mediterraneo, contribuisce a difendere lo sviluppo delle larve del riccio di mare (Paracentrotus lividus). Questa specie, che ha anche un interesse commerciale, è minacciata dall’acidificazione delle acque marine che ostacola lo sviluppo dello scheletro composto da carbonato di calcio. Ma grazie alla propria attività fotosintetica, la Posidonia è stata in grado di alzare il pH dell’acqua di 0.15 unità. In presenza delle piante, le larve di riccio hanno così sviluppato meno malformazioni e raggiunto una grandezza maggiore nella fase finale dello sviluppo.


Le microplastiche arrivano fin sui giganti di ghiaccio dei Forni e del Miage, due dei più importanti ed estesi ghiacciai dell’arco alpino, tra Lombardia e Valle d’Aosta: le nuove evidenze emergono da campioni raccolti la scorsa estate da Greenpeace Italia e analizzati grazie al supporto del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e del Dipartimento per lo Sviluppo Sostenibile e la Transizione Ecologica (DiSSTE) dell’Università del Piemonte Orientale. I risultati mostrano che la contaminazione interessa l’80% dei campioni prelevati sul Ghiacciaio dei Forni e il 60% di quelli raccolti sul Ghiacciaio del Miage. Tra le microplastiche individuate, ossia tutte le particelle di plastica con dimensioni inferiori a un millimetro, le fibre rappresentano oltre il 70% dell’impronta di contaminazione. Nello specifico, il cellophane è il polimero prevalente (55%), seguito dal polietilene-polipropilene (35%) e dal nylon (10%).

«Le analisi confermano che la contaminazione da microplastiche è ormai ubiquitaria e ampiamente diffusa anche sui ghiacciai italiani», afferma Marco Parolini, docente di ecologia presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano. «Questa evidenza risulta particolarmente importante in un periodo storico in cui l’aumento delle temperature globali può determinare il rilascio di inquinanti immobilizzati all’interno dei ghiacciai in fusione, contribuendo a contaminare gli ecosistemi acquatici e terrestri che si trovano a valle».


L’Università Statale di Milano ha guidato uno studio internazionale - condotto su 46 ghiacciai in fase di ritiro in tutto il mondo - sullo sviluppo della vegetazione dopo il ritiro del ghiacciaio: passata una prima fase in cui solo poche piante pioniere crescono su un suolo povero e instabile, a distanza di 50 anni nuove specie avanzano per sostituire le pioniere. Il lavoro, pubblicato su Nature Plants, rappresenta un modello per comprendere l’evoluzione dei nuovi ecosistemi.


In tutto il mondo, i ghiacciai si stanno ritirando rapidamente. Le aree che si liberano dopo il loro ritiro sono rapidamente colonizzate da una moltitudine di organismi. Tra
questi, le piante sono sicuramente gli organismi più visibili. Dopo la colonizzazione di queste aree, le comunità di piante cambiano nel tempo, in un processo chiamato successione ecologica. Quali meccanismi determinano queste successioni? Negli anni, sono stati proposti due meccanismi: nuove specie possono arrivare senza escludere quelle che erano già presenti (aggiunta), oppure le nuove arrivate possono sostituire le specie già presenti (sostituzione).


Uno studio sulla copertina di Nature Food apre nuovi scenari per la sostenibilità nei sistemi agroalimentari.

Uno studio pubblicato sulla copertina di Nature Food, frutto di una collaborazione tra il Politecnico di Milano e l’Università degli Studi di Milano, evidenzia come
il maggior utilizzo di sottoprodotti nel settore mangimistico in un’ottica circolare possa portare ad un significativo risparmio dell’uso di suolo e di risorse idriche e quindi a una maggior sostenibilità dei sistemi agroalimentari.


Alla base del lavoro firmato da Camilla Govoni e Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano, Paolo D’Odorico della University of California at Berkeley e di Luciano Pinotti dell’Università degli Studi di Milano c’è una accurata analisi della competizione per le risorse naturali fra produzione di cibo animale e cibo umano e una ricerca di strategie per ridurre sia tale competizione sia l'uso insostenibile delle risorse naturali che da essa può derivare.


È di oltre 26 tonnellate il carico di “pellet” in plastica contenuto nel container che lo scorso 8 dicembre è stato disperso in mare dalla nave Taconao, al largo della costa del Portogallo.

Ora la marea di piccoli granuli di plastica bianca, miliardi di minuscole palline che vengono prodotte e spedite da una parte all’altra del Pianeta per essere utilizzate come materia prima per costruire oggetti di uso quotidiano, si sta diffondendo sulle spiagge di La Coruña e Mariña lucense, in Galizia, regione del nord-ovest della Spagna, e molti volontari si stanno muovendo per liberare le coste.
Il primo allarme alla giunta regionale è arrivato proprio il 13 dicembre, quando parte della marea di plastica ha raggiunto la spiaggia di Ribera (La Coruna). Ma solo il 5 gennaio l’amministrazione della Regione ha attivato il Protocollo di emergenza per inquinamento marino ma al livello più basso. Nella mattinata dell’8 gennaio la Procura generale per l’Ambiente spagnola ha annunciato l’apertura di un’inchiesta.

Uno studio condotto da ricercatrici e ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche, in collaborazione con l’Università delle Svalbard, ha identificato la presenza di contaminanti ‘emergenti’ riconducibili ai prodotti per la cura personale nella neve delle isole Svalbard. Lo studio è stato recentemente pubblicato su Science of the Total Environment.

 Ritrovate tracce di creme solari al Polo Nord, sui ghiacciai dell’arcipelago delle Svalbard. Si depositano soprattutto in inverno, quando sull’Artico cala la notte. A misurarne la concentrazione e spiegarne l’origine è uno studio condotto da ricercatrici e ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con l’Università delle Svalbard. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Science of the Total Environment.


Una ricerca, pubblicata sulla rivista Amphibia-Reptilia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza e l’Universidad Nacional Autónoma de México, ha individuato nella lucertola Sceloporus geminus una nuova specie caratterizzata da una combinazione unica di diversi caratteri tra i quali un particolare pattern cromatico del collare di squame presente alla base della testa
Una ricerca nata dalla collaborazione tra la Sapienza e l’Universidad Nacional Autónoma de México ha individuato una nuova specie di lucertola spinosa denominata Sceloporus geminus caratterizzata da una combinazione unica di diversi caratteri, tra i quali un particolare pattern cromatico del collare di squame presente alla base della testa. Questa specie, che in passato era stata confusa con altre, è stata scoperta nella regione più meridionale della catena montuosa Sierra Madre Orientale in Messico.

Il clima sta cambiando rapidamente su scala globale: aumentano le temperature medie e i fenomeni meteorologici estremi, come le ondate di calore, la siccità e l’aridità. A formulare un’ipotesi sulla possibile relazione tra clima arido e incidenza dell’asma in Italia è un team del Consiglio nazionale delle ricerche, che riunisce ricercatori dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria (Cnr-Igag), Istituto di farmacologia traslazionale (Cnr-Ift) e Istituto di fisiologia clinica (Cnr-Ifc), in collaborazione con pneumologi, biostatistici ed epidemiologi di diverse università italiane (Verona, Ancona, Ferrara, Palermo, Pavia, Torino e Sassari). La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Scientific Reports.

Sabato 2 dicembre in piazza per ribadire "Lo stretto non si tocca"



L’Italia rischia sul ponte sullo Stretto di Messina due procedure d’infrazione comunitarie. Una per violazione della Direttiva Appalti (Dir, 2014/24/UE), per aver assegnato senza gara un’opera il cui costo eccede di più del 50% del valore del contratto iniziale. L’altra per violazione della Direttiva Habitat (Dir. 92/43/CEE) e Uccelli (Dir 2009/147/CE, ex 79/409/CEE) per l’incidenza negativa che il progetto avrebbe su una delle aree più importanti per la sosta e il transito degli uccelli migratori. Lo Stretto di Messina infatti ospita due Zone di Protezione Speciale (ZPS) tutelate dall’Europa: la Costa Viola (Calabria), i Monti Peloritani-Dorsale Curcuraci-Antennamare (Sicilia) e Area Marina dello Stretto. È il monito lanciato dal WWF a pochi giorni dalla manifestazione nazionale “Lo Stretto Non si Tocca” che si svolgerà a Messina sabato 2 dicembre (appuntamento alle 15.30 piazza Cairoli) indetta da associazioni e comitati locali alla quale hanno già aderito più di 60 tra associazioni, comitati, sindacati, soggetti collettivi nazionali e locali tra cui lo stesso WWF.

 

Scienzaonline con sottotitolo Sciencenew  - Periodico
Autorizzazioni del Tribunale di Roma – diffusioni:
telematica quotidiana 229/2006 del 08/06/2006
mensile per mezzo stampa 293/2003 del 07/07/2003
Scienceonline, Autorizzazione del Tribunale di Roma 228/2006 del 29/05/06
Pubblicato a Roma – Via A. De Viti de Marco, 50 – Direttore Responsabile Guido Donati

Photo Gallery